La Pelota no se mancha

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Dovrebbero scriverlo, come sui pacchetti di sigaretta: “Crea dipendenza”.
Come una droga, la più innocua di tutte. Perché ti fa viaggiare nel tempo senza procurarti danni, ti fa tornare bambino ogni volta che la incroci. Anzi, che lo incroci.

Il Pallone.

Andrebbe impresso tanto sul cuoio quanto sulla plastica del Super Santos.
Bisognerebbe stamparlo all’ingresso di ogni campetto, sulla porta di ogni spogliatoio, persino all’interno dei pali della porta.

Il Pallone crea dipendenza.

Se lo vedi rotolare nella tua direzione, non puoi fare a meno di stopparlo e rilanciarlo, magari dopo qualche palleggio. Se incontri un gruppo di ragazzini intenti a rincorrerlo, difficilmente riesci a passare oltre senza fermarti un attimo a guardare. Però, che bel tocco. E quell’altro, che grinta.

Quando il tuo piede tocca per la prima volta un pallone, quasi sicuramente non sai ancora camminare. Forse riesci a teneri dritto in piedi, niente di più. Da quell’istante, la magia non ti abbandonerà più.

La pelota no se mancha, disse il più grande di tutti.
Il pallone non si sporca.

Una volta, un vecchio allenatore disse: “Molti credono che il calcio sia questione di vita o di morte. Non sono d’accordo: è molto, molto di più”

 

Tre

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Ci sono quelli che chiedono le vittorie. I trofei, le coppe, gli scudetti.
Quelli che per una vittoria sarebbero disposti a tutto. Ogni scorrettezza, persino la più infame, viene giustificata in nome del risultato.
Vincere è l’unica cosa che conta non è un motto solo juventino. Citazioni di Machiavelli a cazzo, ci si nasconde dietro un bieco “il fine giustifica i mezzi”.
Questi tifosi valutano tutto in base al risultato. Se vinci, loro sono con te. Se non vinci, sei un fallito. E i falliti non piacciono a nessuno, in un campo da calcio come nella vita di tutti i giorni.

Poi ci sono quelli romantici, che sognano di vincere giocando meglio dell’avversario. Quelli che si esaltano per l’azione sublime, il colpo ad effetto, la giocata folle che illumina un pomeriggio grigio e faticoso.
Sono i tifosi del bello, gli esteti del calcio totale, per i quali una sconfitta non è un dramma se arriva dopo una grande prestazione.
Sono quelli che nella vita provano a fare la cosa buona, a stare dalla parte dei giusti e dei ragionevoli, pronti alle raccolte di firme, ai cortei per la pace, allo sport inteso come passatempo che fa bene al corpo e allo spirito.
Persone nobili, perle rare, spesso però inadatte alle battaglie della vita.

Poi ci sono quelli. Gli altri. Quelli che non piacciono ai machiavellici e ai romantici. Quelli che si esaltano per un tackle duro, per una maglia sudata fino all’inverosimile, per un gamba tesa, per quelli che mettono la testa dove gli altri non metterebbero un piede.
Quelli che sì, davvero, fino in fondo, vivono ogni momento “al di là del risultato”. Sul campo di calcio come sul luogo di lavoro, in famiglia come tra gli amici.
Non vogliono fare la cosa buona, né la cosa giusta, ma solo quello che va fatto. Per appartenenza, per difesa o persino per vendetta.
Non vogliono stare dalla parte dei buoni e dei ragionevoli: dalla parte del torto si sta meglio, c’è più posto.
Quelli che non hanno nobiltà, se non di spirito. Gente popolare, nel senso migliore del termine.

Quale dei tre gruppi è meglio? Domanda sbagliata. Non è questione di classifiche, ma di atteggiamento, di approccio, di mentalità.
Già, la mentalità. E’ quella a fare la differenza.
Sempre. Ogni giorno. In ogni campo. Sotto ogni tempo.

Al triplice fischio

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Quando l’arbitro fischia tre volte e la tua squadra non ha raggiunto il risultato sperato, accade una cosa. Dura un attimo o poco più, alla peggio qualche minuto, poi passa. Ma succede sempre.

Accade che ogni volto vicino a te perda i lineamenti, che la tua città imbruttisca all’istante, che la tua ragazza faccia schifo, che il tuo lavoro non abbia più senso. Accade che la rabbia provata fino al triplice fischio si tramuti in sgomento, in perdizione, infine in disperazione.

Ogni volta c’è uno smarrimento, una labirintite improvvisa, una emicrania lancinante, un groppo in gola, un cuore impazzito.

Poi cominci a sentire i commenti, quegli infiniti “Lo sapevo” , quei vergognosi “Ma che veniamo a fare”, quegli indecenti “La prossima volta mi sto a casa”.

Allora lì tutto finisce. Nessuno smarrimento, tutto torna chiaro. E tu capisci nel profondo il senso di quelle parole che ti dissero quando avevi da poco iniziato a frequentare le gradinate.
Quelle parole che hai tatuato nell’anima e che, in queste serate, tornano a infiammarsi di verità:

Quando vinci, sei di tutti.
Quando perdi, sei solo mia.

La sconfitta

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La sconfitta non è subire un gol in più dell’avversario. È non fare niente per ribaltare la situazione.

Il risultato può dipendere da tanti fattori, la sconfitta solo da uno: l’assenza di mentalità. Bisogna sempre metterci il piede, mai tirare indietro la gamba. Tanto rischi di farti male soprattutto quando rinunci al contrasto, allo scontro, alla lotta.

Il tabellino e il campo non dicono sempre la stessa cosa, anzi a volte parlano lingue diverse. Perdere una partita e essere sconfitti, nel calcio come nella vita, sono due cose completamente diverse.

Si può perdere, non c’è niente di male.
Ma non si può mai accettare una sconfitta.
Mai.

Essere Ultras

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Essere ultras sulle gradinate della vita.

Quando mi dissero questa frase non avevo ancora la barba. Oggi a molti può sembrare una frase eccessivamente retorica, ma credetemi… cazzo, credetemi… non lo è.

La vita è davvero una gradinata. Si sale, si scende, si esulta, ci si dispera, si carica, ci si difende.

Essere ultras non è solo il sostenere una squadra, una maglia, una bandiera come nessuno farebbe. Contro tutto e tutti. Non è una cosa da stadio e basta.

Essere ultras è una questione di approccio, di appartenenza, di mentalità. Una mentalità che devi mettere in ogni cosa, da quando quella sfaccimma di sveglia suona all’alba a quando ti fai l’ultimo sorso prima di andare a dormire.

Essere ultras non è solo scontrarsi con altri tifosi o con la sbirraglia, ma è scontrarsi contro le storture di un sistema, contro gli affanni di ogni giornata, contro i semafori rossi dell’esistenza.

Essere ultras è tirare su il cappuccio della felpa e gridare a questo cazzo di mondo che no, non ci avrete mai come volete voi.

Divide et impera

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“Faremo un grande mercato.
Tutti cambiano allenatore, noi no.
Grande vantaggio.

I faretti. I seggiolini. Le Universiadi. Il pezzotto. La droga. Le multe.

Albiol vuole andare via? Mannaggia.
Manolas? No, è ‘na capa pazza.
E’ vero! Un amico del fidanzato della figlia di mio cugino è passato per Roma due anni fa: Manolas rompe lo spogliatoio.
Arriva Manolas: grande acquisto!
La miglior difesa d’Italia. Anzi d’Europa.

E adesso arriva pure James.
E’ fatta. E’ ufficiale.
Quasi ufficiale. La comunicazione arriverà il 13 luglio.
Il 15 agosto.
Il 30 febbraio.

Che ha detto? Mette le curve a 50 euro? Fa bene! Accussì imparano a contestarlo!
Come? Ha abbassato i prezzi? Ha fatto bene! Accussì imparano a contestarlo!

Pareggiamo con la Cremonese: servono rinforzi!
Surclassiamo il Liverpool: nun serve nisciuno!
Ne pigliamo quattro dal Barcellona: ma quando arriva James?
Meno male che Elmas è giocatore. Il nuovo Fabian Ruiz.

Mica come Milik, quella pippa polacca. Magari arrivasse Icardi!
Icardi non vuole venire? Tanto abbiamo Milik! Che ce ne fotte!
Siete degli ingrati col polacco. Io sto con Milik.
Je suis ADL.”

I tifosotti ragionano così.
Da giorni, da mesi, da anni.
Da sempre.
Si fanno dividere per farsi comandare.
Quanto gli piace stare sotto padrone, mammamà.

Meno male che c’è gente ESTRANEA a questo modo di ragionare.
E che non è serva di nessuno.

Forma e sostanza

Essere Non Apparire

Una vecchia canzone dei CSI si intitolava “Forma e Sostanza”. Non c’è esperienza umana in cui questa dicotomia non si manifesti.
Sulle gradinate, dello Stadio o della Vita, bisogna decidersi: Essere oppure Apparire.
Noi non abbiamo dubbi.

Ulteriore repressione

Fumogeno

Decreto sicurezza bis.
Codice comportamentale.

Gli ultimi infami tentativi del Sistema di togliere colore alle gradinate.

Strategie

No alla tessera

E’ necessario un mea culpa collettivo.
Ieri, dopo l’ufficializzazione della campagna abbonamenti, l’entusiasmo per il ritorno a prezzi modici ha oscurato, o quantomeno reso meno evidenti, due importanti storture.
Anzi, chiamiamole per quelle che sono: strategie.

La prima: è possibile abbonarsi solo per i possessori di fidelity card, ossia della tessera del tifoso mascherata e resa obbligatoria dalla Lega. “E’ obbligatoria, quindi qual è il problema?”, è l’obiezione che viene facile. La comprendiamo, per carità. Ed è probabile che su questa battaglia bisognerà registrare una sconfitta. Ma proviamo ad aprire gli occhi e le orecchie, non solo il portafoglio: quale fidelity card è più “fidelizzante” dello stesso abbonamento? Se io mi abbono, sono già un fidelizzato e dovrei avere già diritto ai benefit del tifoso “registrato”. Perché si sa, per abbonarsi è necessario portare un documento valido, eccetera, eccetera.

Allora a che serve questa ulteriore fidelity card? Prima, quando senza ipocrisia veniva chiamata Tessera del Tifoso, l’obiettivo era fondamentalmente di carattere commerciale. Infatti la TdT era una sorta di carta di credito, o meglio una Postepay. Il fallimento di questa strategia, negli anni, ha portato all’eliminazione parziale di questo aspetto.
Rimane però il divieto principale: il famigerato Articolo 9, ossia il divieto di partecipare a manifestazioni sportive per coloro che hanno commesso “reati da stadio”. Anche se le pene per questi reati sono state scontate. Inutile dire che l’incostituzionalità di tale provvedimento è lampante, ma nel paese dei gattopardi la Costituzione viene puntualmente calpestata, specie quando riguarda quei luridi tossici, camorristi, spacciatori e falsari delle curve!

E cosa ha fatto la società Napoli in questi anni, per contrastare questo stomachevole andazzo? Una beneamata minchia, sposando totalmente la linea della Lega e le strategie di repressione del tifoso non allineato. Nessuna opposizione alla fu tessera del tifoso, nessun contrasto al nuovo codice comportamentale voluto da Salvini.

Secondo aspetto non analizzato ieri: i prezzi, già fissati, per le partite di campionato. “Prezzi in linea con le altre squadre!”, si dirà. Vero, purtroppo. Perché spendere quaranta euro a cranio per assistere ad una partita di cartello in curva (e settanta cucuzze nei distinti…) è quanto di più lontano a ciò che viene definito “sport popolare”. La strategia è chiara: incentivare ad abbonarsi (costo medio, 15 euro a partita in curva), piuttosto che comprare i singoli biglietti. Ha una logica, non c’è che dire. E se fosse slegata dalla tessera del tifoso, o fidelity card che dir si voglia, ci troverebbe probabilmente d’accordo. Ma qui assume i connotati del ricatto.

Questioni di strategie, signori. Strategie commerciali e repressive. Per le quali il tifoso è un utente. Nulla di più.

Solo gli Ultras vincono sempre

Solo gli Ultras

Sterili dibattiti di fantamercato fanno il paio con la spaccatura, fomentata dai papponcini, nel tifo partenopeo.
Decenni di avanguardia evidentemente non contano più nulla per quelli che vanno al Tempio “a vedere il Real Madrid”, e non il Napoli.
Oggi Ultras è sinonimo di tifoso interessato, nel senso che tifa per interesse e contesta quando quegli interessi non sono perseguiti e finalizzati.
Interessi non sportivi, ma criminali.
Tossici, spacciatori, camorristi, falsari, gente che “non mangia più col Napoli”.

È questa la più grande, indelebile e grave colpa del proprietario del Bari: aver voluto spaccare il tifo, ossia la più grande forza del Napoli.
Potrà comprare undici Messi e vincere dieci scudetti, questa infame colpa non sarà mai mondata.
Mai.

Patti chiari, amicizia lunga

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Quello che si chiede ai calciatori è di onorare la maglia che indossano.
Nel nostro caso, la sacra maglia azzurra.
E hanno un solo modo per onorarla: sudarla.

Se fuori dal campo fanno festini o vanno in chiesa, organizzano orge o sono astemi, non sono problemi nostri.
Sono problemi della Società.

Non confondiamo mai i compiti: a noi tocca sostenere la squadra.
Non dobbiamo essere ultras del professionismo né tifosi del bilancio.
Ci sono altri, lautamente pagati, che devono preoccuparsi di questo.

Se un miliardario in pantaloncini lotta su ogni pallone, espelle ogni goccia di sudore, non tira mai indietro la gamba, non accetta la sconfitta fino al triplice fischio dell’arbitro, avrà il nostro sostegno.
Se il suddetto privilegiato se ne fotte delle regole non scritte di uno spogliatoio, mette in atto comportamenti lesivi della Squadra e la Città, antepone l’interesse personale al bene comune, riceverà rabbia e disprezzo.
Soprattutto a Napoli.

Lo sappiano i calciatori che indossano o indosseranno la maglia azzurra.
Lo sappiano anche le loro mogli, amanti, corti, gli entourage e i prezzolati.

Patti chiari, amicizia lunga.

Bandito

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Se pure arrivasse James Rodriguez, sarebbe comunque il secondo “Bandito” più importante nella storia del Napoli.

Il primo, oggi, compie 50 anni.

Il primo fumogeno

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La prima volta che ho avuto un fumogeno in mano non è stato al Tempio.
E’ stato al Partenio di Avellino.
Napoli – Sampdoria, sedicesimi di coppa italia.

Pioveva, porca troia quanto pioveva.
Partimmo con tre auto da Pozzuoli.
Io stavo con uno che “vado ad Avellino tutti i mesi, per lavoro”.
Ovviamente, sbagliò strada.
Ce ne accorgemmo quando vedemmo il cartello “San Vittore”.

Facemmo San Vittore – Avellino in un amen.
Arrivammo a partita iniziata.
All’ingresso c’era uno steward con l’ombrello e poca voglia di stare lì.
Ci strappò i biglietti senza nemmeno controllare.
Facemmo le scale di corsa, per raggiungere l’anello superiore del Partenio.
Arrivati lì, non c’era nessuno.
Nemmeno un gruppo ultras.
Dove cazzo stavano?

Sotto.
Nell’anello inferiore.
Buttai uno sguardo nella curva opposta: vidi lo striscione Fedayn.
Presi il cellulare e chiamai Zelig.
– Oh, ma addò stai?
– Di fianco ai Fedayn, come sempre. Pecchè, tu addò stai?
– Nella curva opposta.
Agitai le braccia.
– Si, ti vedo. Che ci fai là?
– Eh…

Avevamo pure sbagliato curva.
La pioggia, almeno, si era presa una breve pausa.
Allungai il collo, per vedere quali gruppi stessero all’anello inferiore, sotto di me.
C’erano i Vecchi Lions.
Ottimo. Decidemmo di metterci lì.
Neanche il tempo di ridiscendere le scale, che incontrai un tizio che conoscevo.
Uno che aveva almeno quindici anni di curva più di me sul groppone.
– Che cazzo ci fai qua?
– Nu casino che nun hai idea… abbiamo sbagliato strada, siamo arrivati tardi, abbiamo sbagliato curva…
– Ho capito, nu maciello. Vabbuò, vieni qua… dammi na mano.

Gli diedi una mano.
Letteralmente.
Nella mano mi mise un fumogeno.
– L’hai mai appicciato?
– No, mai.
– Te faccio vedè… se fa accussì.
La torcia prese fuoco.
Strinsi gli occhi, per abituarmi ala luce.
L’odore acre del fumogeno non mi era mai sembrato così dolce.
Lui fece lo stesso con un altro fumogeno.
Si mise a qualche metro da me.

Il cellulare mi squillò.
Risposi, senza leggere il nome sul display.
Era Zelig.
– Oh, ma si tu chillo co’ nu fumogeno in mano?

Gli Ultras italiani dettano la linea

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Vi sottoponiamo un interessante articolo apparso sul Manifesto.
E’ una breve intervista al sociologo francese Sébastien Louis, autore del libro “Ultras. Gli altri protagonisti del calcio”.
L’interesse nasce dal fatto che essere Ultras è sempre più vista come una cosa italiana (che altri provano a imitare), ben distinta dall’hooliganismo britannico o dell’est europa e anche dal tifo organizzato sudamericano.
L’intervista è firmata da Pasquale Coccia:

“Il movimento ultras italiano è un punto di riferimento mondiale per le coreografie. Dai primi gruppi dei fedelissimi, fattore di aggregazione sociale, alle sottoculture degli anni ‘70 del secolo scorso, la curva ha rappresentato uno spazio libero e liberato. Il tentativo esplicito dei nuovi padroni del calcio è di espellerli dagli stadi, perché il calcio commercializzato non li tollera più. Ne parliamo con il sociologo francese Sèbastien Louis, autore di Ultras. Gli altri protagonisti del calcio (meltemi, euro 25,00).

Perché hai scritto questo libro?

Sono stato un ultras del Marsiglia dal 1994 al 2007. Viviamo in una società dell’individualismo e della divisioni, a me è sempre piaciuto stare insieme, partecipare ai momenti di creatività collettiva e lo stadio, sopratutto la curva lo permettono. L’Italia è considerata la mecca degli ultras dall’Europa fino all’Indonesia. Nel 1967-68 è nato il primo gruppo ultras, anche se esistevano già gruppi dei Fedelissimi Lazio, Roma, Sampdoria, ecc. In quegli anni si passa dai circoli ai superclub dei tifosi, voluti dai presidenti delle società. Nel ‘67 i tifosi della Sampdoria espongono uno striscione con la scritta Commandos, fino al 1971 sorgono i commandos Tigre, Fossa dei Leoni, Ultras della Sampdoria, Boys dell’Inter. Dopo il ‘71 sorgono le Brigate. C’è un salto di qualità, non sono tifosi violenti, ma accettano il principio della violenza.

Gli altri gruppi ultras famosi nel mondo?

Gli hooligans, i torcidos brasiliani, i barras bravas in Argentina e infine il modello “balcanico” tra la Turchia e la ex Jugoslavia. Gli hooligans prediligono lo scontro fisico, i torcideros sono espressione della cultura del carnevale brasiliano, gli ultras della torcida vi partecipano con le loro bande musicali. In Argentina le barras sono molto violente e meno organizzate. Gli ultras italiani diventano un punto di riferimento mondiale per le coreografie negli stadio.

Tra gli ultras trovano spazio anche le sottoculture?

Tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio dei ‘70 in Italia non si poteva essere huppye, skin, punk, erano culture che si erano affermate a Parigi, Londra, Bruxelles, ma non nel vostro paese. Allo stadio era possibile presentarsi in un certo modo, i genitori accettano un modo di vestirsi dei figli perché sanno che vanno allo stadio a fare il tifo, non considerano la curva un luogo pericoloso, come le manifestazioni politiche dove vi era il pericolo di scontri tra giovani di sinistra e fascisti o con la polizia. I giovani ultras liberano gli spazi tradizionali dello stadio per fare il tifo, aggregarsi, bere, assumere sostanze, badano poco alla partita, la curva diventa uno spazio liberato con gruppi trasversali, anche se i primi ultras sono di sinistra, ma la politica non c’entra niente. Gli ultras ostentano in curva simboli politici di quel periodo, dalla P38 al pugno chiuso fino al saluto romano, in realtà sono solo provocazioni, è una cultura giovanile diversa che di fatto diventa una sottocultura.

Hai studiato il modello ultras nell’Africa del nord?

Ho fatto parte degli ultras del Marsiglia, nato nel 1984 ad opera di un figlio di immigrati italiani, in Belgio nel 1996 è nato un gruppo ultras grazie all’impegno di un figlio di immigrati delle Marche, anche nel Lussemburgo e in Germania i gruppi ultras sono stati fondati dai figli degli immigrati italiani. Nel Nordafrica il movimento ultras è nato nel 2002, in Tunisia e Marocco vedevano la tv italiana, la trasmissione sportiva 90° minuto, i giovani delle curve si sono ispirati a quelli della Fossa dei Leoni, Commandos Curva Sud, ecc. A volte allo stadio si espongono striscioni scritti in italiano. Anche in Indonesia ho visto uno striscione dei tifosi dello Pss Sleman, una squadra di serie A, scritto in italiano e firmato Brigata Curva Sud. La settimana scorsa a Genova, alla festa dei 50 anni del gruppo ultras Tito Cucchiaroni della Sampdoria, ha partecipato un ragazzo arrivato appositamente dal Marocco, ha chiesto e ottenuto il visto, solo per partecipare a una festa degli ultras, altrimenti sarebbe rimasto a casa.

Il rapporto tra ultras e calcio commerciale?

Gli ultras sono l’ultima frontiera di un calcio popolare. Nel 1993 cambia la formula della Champions League, gli ultras sono i primi a capire che ai vertici del calcio europeo c’è un disegno chiaro di volerli estrometterli dagli stadi, di dare spazio alle famiglie. Si comincia dall’Inghilterra con la Premier League, si criminalizzano gli hooligans che nel decennio precedente hanno seminato violenza e morte, come a Sheffield, con l’intento di ridurre la capienza degli stadi e sostituire un pubblico popolare con uno medio-alto, aumentando i prezzi dei biglietti. Oggi in Inghilterra non cè più tifo, per un appassionato del tifo acceso sugli spalti è il peggior posto dove andare. Ci sono tanti inglesi che vengono in Italia per vedere le partite. Conosco inglesi che sono tifosi dell’Arezzo, altri vanno a Genova. Al momento il calcio italiano rappresenta sul piano del tifo popolare un contromodello rispetto a quello inglese. La sfida è riprendersi le curve per mantenere un ruolo pubblico.

Gli ultras rischiano di fare da contorno al calcio commerciale?

In Germania si registra una media di 44 mila spettatori a partita, la percentuale più lata del mondo, hanno capito l’importanza di coinvolgere gli ultras per tenerli nello stadio. La gente va allo stadio per vedere la partita in campo, ma anche lo spettacolo. Negli stadi tedeschi ci sono posti per i tifosi, per le famiglie con bambini, per gli ultras è un modello che funziona benissimo. Anche in Germania c’è la repressione ma non come in Italia.

Recentemente il governo italiano ha introdotto diffide fino a 10 anni, gli ultras diventano un laboratorio della repressione, oggi allo stadio, domani nelle città. Lo Stato ha bisogno di cavie, che siano gli immigrati o gli ubriachi, non importa, gli ultras in Italia sono considerati socialmente pericolosi.”

Il Gioco del Pallone

Il gioco del Pallone

Il citofono diventava di fuoco.
Quasi sempre di soprannomi.
‘O chiatto, ‘O scenzià, ‘O russo.
Io ero ‘O champagne.

Le scale discese a due a due.
Saltando come grilli.
Gli spiccioli rubati dal resto della spesa che facevano rumore nelle tasche.
Il cancello aperto.
Il saluto rapido ai compagni.
Jammuncenn.

Colletta.
Metti qua. Io ho solo queste. Muort ‘e famme.
Apparate seimila lire.
Due supersantos. E ci esce pure una gassosa.
Signò, due supersantos buoni! Che ci vogliono le felle di carne per schiattarli!
Tranquillo, Champà. Se si schiatta, so come fare. Metodo infallibile. Me l’ha insegnato il fratocugino del fidanzato di mia sorella. Con la sputazza trovi il buco, con un ago di pino lo tappi.
Tranquillo, Champà.

Il campo.
Una lingua d’asfalto sconnesso.
Valgono le sponde?
Solo se sei ricchione!
OK, niente sponde.
Una porta fatta di pietre di tufo.
L’altra dai resti di un cancello divelto.

Portieri volanti?
Siamo dispari!
No problem.
Porta americana.
Vabbuó.

Il tocco per le squadre.
I capitani? Jamme bell.
So pa me a parta toja…
Jo!
Uno due tre quattro cinque sei sette.
‘O sfregiato, con me.
Mannaggia, è forte.
Io mi piglio ‘o scienziato.
‘O russo.
Merdone.
Fabiolino.
Leccagino.
Quattrocchi, in porta.

Noi siamo il Napoli.
‘O cazz, noi siamo il Napoli.
Allora nessuno è il Napoli.
OK, noi siamo il New Team.
Nuje ‘a Muppet.
Vi schiattiamo la capa.
Se se…

Cominciamo?
Fischia tu.
No, fischia tu.
– Fischio io! Fiuuuuuuu!
Ulloc ‘o cornut!

No politics

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Tra le tante cose ottime del movimento ultras napoletano c’è anche il fatto di essere apolitico.

Fuori, vota chi cazzo vuoi.
Dentro, tifa solo il Napoli.