Away days: Milano

Napoli_Milan_109

San Siro.
Milan vs NAPOLI.
1981/82.

Ideale Estraneo

Fedayn_Eam

Saranno passati più di vent’anni da quella sera.
La sera in cui decidemmo che volevamo cambiare.
Che ci eravamo rotti i coglioni di vedere la partita al solito posto.
Volevamo andare lì, in mezzo a loro.

Li avevo visti per mesi e mesi.
Compatti come un’armata.
Senza tamburi, soltanto mani e voce.
E che voce, cazzo. Un ruggito.

Il loro simbolo mi ricordava Che Guevara.
Un capellone col basco, rigorosamente azzurro.
Una sciarpa azzurra a coprire il volto.
Un coltello stretto nel pugno sinistro.

Ma fu un’altra cosa a convincerci.
A farci alzare le chiappe da dove stavamo e ad andare lì, vicino a loro.
Fu quella sigla.
E.A.M.
Non sapevo, non sapevamo cosa significasse.
Poi ci fu spiegato.
Estranei alla Massa.

Come volevamo essere noi.
Come volevo essere io.

Estremo sostegno

meno vinci piu canto

“Quando vinci sei di tutti. Quando perdi, solo mia.”
Non è solo uno striscione, un coro da stadio, una frase da appuntare sul diario di un adolescente che comincia a frequentare le gradinate.
E’ un comandamento da osservare, un ideale da seguire e professare, una strada da calpestare. Da solo o in compagnia di altri come te. Persone che restano sugli spalti quando tutti cominciano ad andar via. Gente che perde la voce non solo quando vinci, ma soprattutto quando perdi.

Gente che non molla. Mai.

In curva ho imparato tutto

UMV

In curva ho imparato tutto. Tutto ciò che so su come cazzo si sta al mondo. Non me lo hanno insegnato a scuola. Non me lo hanno insegnato in chiesa. Me lo hanno insegnato in curva.

In curva ho capito che Amore fa rima con Onore. Se ami la tua squadra, devi onorarla. Se ami la tua donna, devi onorarla. Amare in maniera disonorevole non è amare. Se un amore ti porta a fare cose ingiuste o indegne, non merita di essere vissuto. Onora la tua squadra, onora la tua curva. Solo così dimostrerai amore: a lei e a tutti. E soprattutto a te stesso. Onora te stesso, fratello.

In curva ho imparato la Solidarietà. Aiutare chi non conosci. Abbracciare chi non conosci. Perché se sta lì con te, perde la voce insieme a te, si spella le mani insieme a te, macina chilometri insieme a te, subisce la repressione di stato insieme a te, significa che è come te. Significa che tu e lui siete la stessa cosa. Un pugno dato a lui è un pugno dato a te. Una manganellata sulla sua schiena è una manganellata sulla tua schiena. Quando cade per terra, aiutalo ad alzarsi. Perché quando cadrai tu, una mano si tenderà e ti aiuterà ad alzarti. Indipendentemente dal risultato. Indipendentemente dai calciatori che vestono la vostra maglia. Quella mano, per te, ci sarà sempre. Sempre.
In curva ho imparato che tutto passa, tranne l’Ideale. I calciatori possono cambiare casacca. I presidenti possono vendere la squadra. La Federazione può farla retrocederla o costringerla al fallimento. L’Ideale Ultras, invece, ci sarà sempre. In piedi sulle rovine del calcio, e del mondo, moderno. Quell’Ideale che ti fa mettere la gamba dove tutti la toglierebbero. Che ti fa credere che nella vita di tutti i giorni, anche se stai sotto 3 a zero, puoi sempre farcela. E’ già successo, e succederà ancora. E ancora. E ancora. E può succedere anche a te, se non molli di un millimetro. Se non indietreggi, nemmeno per prendere la rincorsa.

In curva ho imparato che si può essere fratelli anche se non si hanno gli stessi genitori. Che possono nascere amicizie immortali. Che il rispetto per gli altri porta al rispetto per se stessi. Che tutti abbiamo il sangue rosso, quel sangue che le forze del (dis)ordine provano a farci uscire ad ogni trasferta, persino quando non facciamo niente e stiamo buoni e composti come ci vuole il Sistema.

In curva ho imparato che il Sistema non ci vuole in una certa maniera piuttosto che in un’altra. Il Sistema non ci vuole e basta. Non vuole gente con la schiena dritta. Non vuole persone che non accettano di pagare 40 euro una curva. Non vuole persone che non vogliono tesserarsi e ridursi ad essere soci di un club. Il Sistema vuole degli utenti a cui far credere di essere suoi soci. Io non voglio essere socio di nessuno.

In curva ho imparato che la politica non deve entrare negli stadi. Perché divide. E tutto ciò che ci divide, che ci allontana, che ci ingabbia in categorie e definizioni, è nocivo. Gli ultras non si dividono, si differenziano. La differenza sta solo nei colori sociali e nelle città che difendono. La mentalità, invece, ci unisce tutti.

In curva ho imparato che chi non capisce e non rispetta queste semplicissime “regole non scritte”, non è un ultras.
Scegliete un altro nome. Chiamatelo in un’altra maniera.
Ma non vi permettete di chiamarlo Ultras.

Dietro la panchina

Dietro la panchina

Avrò avuto quattordici anni o poco più.
Stavo sugli spalti del Tempio, vicino ai Fedayn.
Incrociai un ultras che indossava una t-shirt grigia, con la scritta in rosso.
Support your local team.
Non ci avevo mai pensato, ma in effetti era una cosa sacrosanta.

Io sono di Pozzuoli, in provincia di Napoli.
A Pozzuoli esiste una squadra, la più antica della Campania.
Football Club Puteolana 1902.
La Puteolana.
Maglia granata, un diavolo come stemma.
Quando mi allacciavo gli scarpini e provavo a rubare palloni agli attaccanti avversari, per un anno ho giocato anche nelle giovanili della Puteolana.
Un anno solo, il tempo di capire che tra calcio e studi liceali, avrei fatto bene a dedicarmi solo a questi ultimi.
A vedere la Puteolana c’ero andato un sacco di volte.
Ma mai a fare il tifo.
Mai in mezzo agli ultras.

Quell’incrocio sugli spalti del Tempio mi spinse a vedere le cose da un’altra prospettiva. Decisi di andare a seguire anche la Puteolana, tutte le volte che gli orari della partita non coincidevano con quella del Napoli. Andai una prima volta, in mezzo agli ultras granata: Old Fighters e Vikings erano i due gruppi principali, quelli che avevano davvero una attitudine ultras. Conoscevo ragazzi di entrambi i gruppi, così mi sistemai con loro. Ci andai una domenica, visto che il Napoli aveva giocato il sabato.
Eravamo a pochi metri dal campo di gioco e facevamo un tifo indiavolato. Mai aggettivo fu più indicato, trattandosi della Puteolana. Il guardalinee poteva sentire le nostre bestemmie e i nostri cori. I calciatori stessi venivano coinvolti dal nostro casino sulle gradinate. Fu un’esperienza bellissima. Vincemmo, ma questo è un dettaglio poco importante. Avevamo fatto un grande tifo. Cori e treni compatti. Una splendida fumogenata. E tifo all’inglese, come piaceva a me, che lo avevo imparato nei Fedayn: senza tamburi, solo battimani e voce.

Il giovedì successivo, nel tardo pomeriggio, la Puteolana sostenne l’allenamento al Conte, lo stadio di Pozzuoli. Era uno di quei pomeriggi invernali in cui nessuno esce di casa se non ha un cazzo da fare. Io, invece, sono sempre stato un tipo a cui la casa puzzava: appena potevo, scendevo e me ne andavo per i cazzi miei. A passeggio, a scrivere, a incontrare gente.
Quel pomeriggio andai al Conte. Avevo voglia, avevo bisogno di stare lì. Chiamai qualche amico per vedere se qualcuno volesse venire con me. Un paio di loro rispose presente: ci saremmo incontrati lì.
Entrai al Conte e non c’era nessuno. Né sulle gradinate, né in campo. Il vento gelido tagliava a fette l’aria e i fili d’erba del campo. Dopo cinque minuti, mi squillò il cellulare:

  • Dove cazzo ti sei messo?
  • Sulle gradinate.
  • Lo so, ti vediamo. Che cazzo ci fai da solo là? Noi stiamo dietro la panchina. Vieni.

Alzai lo sguardo e li vidi. I miei compagni. Entrambi Old Fighters. Stavano seduti sui gradoni dietro alla panchina, dalla parte opposta del campo. Si stavano sbracciando come coglioni.
Mentre facevo il giro del campo per raggiungerli, i giocatori della Puteolana entrarono in campo. Me ne accorsi perché sentii gli applausi dei miei due amici. Guardai nella loro direzione e scorsi i calciatori abbandonare gli spogliatoi e calpestare il verde sporco del campo.
Arrivai da loro e ci salutammo. Faceva un freddo fottuto, un tempo ideale per un caffè bollente. Invece i due avevano portato qualche lattina di birra. Ne presi una in mano, era ghiacciata. Ma se hai quattordici anni e stai di giovedì pomeriggio a vedere l’allenamento di una squadra che fa l’Eccellenza o giù di lì, vuol dire che te ne sbatti il cazzo del caldo, del freddo e di quello che fanno i tuoi coetanei. Ti senti davvero come dicevano i Fedayn: Estraneo alla Massa.

Ci scolammo le prime tre birre manco fosse una calda serata agostana. Poi Procolo, uno dei miei amici, ci guardò con occhi convinti:

  • Fa nu sfaccimma ‘e fridd, ci dobbiamo riscaldare. Tifiamo.

Nessuno obiettò. Alzammo le mani e cominciammo a intonare un coro.
Poi un altro. Poi un altro ancora.
I calciatori di tanto in tanto buttavano un occhio verso di noi.
Verso tre ragazzi dietro la panchina.

Campo vuoto

Campo calcio vuoto

Quando il campo è vuoto e gli spalti silenziosi e grigi, i Pensieri corrono lungo la fascia. A volte mettono in mezzo cross invitanti, altre volte si trascinano la palla sul fondo.
Mentre gli Ideali combattono a centrocampo. Mischie furibonde, tackle durissimi, battaglie da cui si esce sempre con i lividi, anche se incredibilmente in piedi.

Le Responsabilità stanno in difesa. Perché è lì che si vincono i campionati. Lì si costruiscono vittorie e cicli. Stanno in difesa attente al contropiede, al taglio dell’attaccante dietro la linea, al rimorchio da coprire. Le Responsabilità salgono quando c’è da riconquistare palla, scappano indietro quando c’è da difendere su una palla scoperta.

Il campo vuoto a volte fa paura.
Perché puoi perdere prima ancora di scendere in campo.
Perché sa essere come la pagina bianca per uno scrittore.
Come un giorno banale di cui in futuro non si avrà più memoria.

Contro l’elogio del professionismo

Maglie appese

I tifosi del bilancio già mi stavano sulle palle. Gente che antepone le plusvalenze alle vittorie sportive, che preferisce tenere i conti in ordine piuttosto che riempire la bacheca. Nel calcio contano ANCHE i soldi, è chiaro. Ma per questa gente contano PRIMA i soldi. Fossero soldi loro, potrei capire. Ma visto che sono soldi di altri…

Adesso è uscita fuori un’altra razza, forse peggiore dei tifosi del bilancio: gli ultras del professionismo. Per questa gente non contano un cazzo l’attaccamento, l’identità, la passione, la fedeltà.
Baci una maglia, ma poi te ne vai di nascosto nella squadra più odiata? Sei un professionista, lo puoi fare. Anzi, è giusto che tu lo faccia.
Avevi giurato “mai con quelli là” e poi proprio da quelli là te ne vai? Non sei un bugiardo, un traditore, nu piezz ‘e merda. Sei un Professionista.

Ieri l’ allenatore del Milan, Gennaro Gattuso, ha risolto consensualmente il proprio contratto col Milan. Squadra di cui è stato calciatore per una dozzina di anni, ma soprattutto tifoso da quando è nato. Ha rinunciato a due anni di stipendio, circa 5 milioni, e ha chiesto solo che ai suoi collaboratori sia garantito lo stipendio.

Dal punto di vista del professionista, Gattuso ha sbagliato pesantemente, rinunciando a un importante contratto e senza nemmeno avere una nuova società interessata a lui. Secondo gli ultras del professionismo, Gattuso è un coglione.

Secondo me è stato Uomo. Con la maiuscola. È stato un esempio di attaccamento, di altruismo, di fedeltà alla maglia.

Perché solo la maglia conta.
Ma i tifosi del bilancio e gli ultras del professionismo non lo possono capire.

Sulla balaustra arrugginita dell’Ideale

Balaustra

Continuate, continuate pure.
A dare credito a chi dice che ADL e Ancelotti sono arrivati quasi alle mani. Che il mercato del Napoli sarà spumeggiante, anzi sparagnino, anzi miez e miez.
Continuate a litigare sulle bombe di mercato, sulle indiscrezioni di spogliatoio e sulle rivelazioni del pennivendolo di turno.
Continuate a farvi dividere sui furti dei faretti nel cesso della curva, dando le colpe agli ultras (?) o ai napoletani come popolo (???).
Continuate a dire che ha ragione Salvini, magari tra un po’ direte che aveva ragione pure Lombroso. Continuate a prestarvi alla sociologia da quattro soldi, agli odiatori radiofonici unti e bisunti, agli antropologi falliti di stocazzo.
Continuate, continuate pure. Io non partecipo a questo gioco infame.
Me ne resto qui, sulla balaustra arrugginita dell’Ideale.
Dalla parte opposta del campo.

Pioggia in faccia

Pioggia

Non leva acqua da terra da un giorno intero. Pure l’estate non ha voglia di farsi vedere. Sembra uno di quei campioni finiti in panchina, che si rifiutano di entrare quando il mister li chiama.

Intorno a me, tutto fa melina. Niente e nessuno scalfisce la monotonia di questa serata. Si vede che il risultato sta bene a tutti.
La pioggia si finge londinese, ma è una finta che riesce male. La luna è in fuorigioco dietro le nuvole e non fa niente per rimettersi in gioco. Il tempo trascorre stancamente e a nessuno interessa se ci sarà recupero.

Tranne a me, che me ne sto dritto sugli spalti della vita a prendere la pioggia in faccia.
E a sperare in una giocata che mi faccia dire “ne è valsa la pena”.

Bologna – Napoli, ultima stagionale

Solitudine

Termina con una sconfitta una stagione che ci ha fatto stringere poche volte le viscere. Sempre troppo dietro i padroni del vapore, sempre troppo avanti a quelli che domani si giocheranno l’accesso alla Coppa dei Campioni. Poche emozioni, poche incazzature, poche esaltazioni, poche delusioni.

Termina con una sconfitta la prima stagione di Ancelotti. Un leader calmo, per riprendere il titolo di un suo libro. Un ottimo gestore di gruppi, a vedere la sua storia in panchina e a interpretare il suo palmares. Abbiamo visto quasi tutti i giocatori della rosa, e forse abbiamo capito perché in passato avevano giocato poco.

Termina la prima stagione senza il Comandante. Molti ne hanno sentito la mancanza durante le partite. Altri, tra cui il sottoscritto, soprattutto quando il pallone non rotolava in campo. Si era arrivati ad un livello di partecipazione e di immedesimazione tra squadra e tifosi che raramente si è vista sul globo terracqueo, nei due secoli scarsi di Storia del Pallone.

Termina una stagione in cui la distanza tra Società Sportiva Calcio Napoli e i propri tifosi più accaniti e più fedeli è diventata una voragine. Ciò che l’anno scorso era visceralmente unito come un sol Uomo, quest’anno è stato scientificamente diviso. La tifoseria è spaccata, quindi siamo tutti più deboli.

E più soli. Dannatamente più soli.

A girare, mammà

Jersey

Quando capita, succede sempre a quest’ora. Quando il sole comincia il forcing sul mare. Quando le auto cominciano ad entrare nei garage. Quando le TV si accendono sui guai del mondo narrati dai telegiornali.

Capita di sentire la voce di mia madre. Io che mi volto, e la vedo sbracciarsi dal balcone. “È tardi! Sali che è quasi pronto!”.
E io che chiedo ancora cinque minuti. Un’ultima azione. Il dribbling spiazzante, la cagliosa definitiva.

Indipendentemente dal fatto che stessi vincendo o perdendo, avevo ancora voglia di correre dietro a un supersantos. In compagnia di altri dodicenni, sudati quanto me, le ginocchia sbucciate per un fallo infame, il volto rigato dalle dita luride che hanno toccato asfalto, muri di tufo e pallone.
Dodicenni con le mamme in attesa, come la mia. Ma semplicemente prive di un balcone che si affacciava su quel rettangolo irregolare d’asfalto che era il nostro San Paolo, il nostro Bernabeu, il nostro Maracanà.

Un ultimo tiro, mamma. Prepara la doccia, mò salgo. Il tempo di metterla lì, vicino a quel palo arrugginito sopra il jersey, abbandonato dagli operai dell’ennesimo cantiere non finito.

Ora la metto a girare lì, mammà.

La panchina

Panchina

La solitudine serve. Raramente, ma serve. Perché arriva sempre il momento di spegnere il rumore e di farti due chiacchiere coi tuoi pensieri, disporli con ordine in campo e fare il punto. Arriva sempre una mattina in cui sei da solo in un parco, sigaro tra le dita e culo su una panchina claudicante, piedi incrociati e respiri profondi.
Ogni tanto gli occhi guardano oltre la linea del fuorigioco in cui tutti cadiamo, prima o poi. E anche se fingiamo di disinteressarci dell’azione, non possiamo fare a meno di pensare al gol che ci manca e al tackle che non dobbiamo fallire.
Il sole brucia sulla testa rasata, finalmente. I giorni di pioggia britannica, privi di gloria e zeppi solo di affanni, hanno un po’ rotto il cazzo.
Io me ne sto ancora un po’ qui, su questa panchina.
E pensare che la panchina l’ho sempre odiata.