Questione di appartenenza

Questione di appartenenza

A volte non sei tu a scegliere quei colori.
A volte sono loro a scegliere te.

Si tuffano nei tuoi occhi, vibrano nel tuo stomaco, palpitano nel tuo cuore.
Li vedi intorno a te, sui muri della città, appesi ai balconi del quartiere o stretti al collo, incollati agli zaini degli scugnizzi e ai pali della luce.

Quei colori diventeranno i tuoi colori. E lo saranno per sempre, riempiendo le tue giornate nel grigiore di un mondo in bianco e nero.

Per quei colori ti emozionerai, lotterai, piangerai.
Non sarà mai un motivo di convenienza, ma sempre e solo una questione di appartenenza.

4 agosto a Marsiglia

Marseille

Non è ancora ufficiale, ma è molto probabile.
Il prossimo 4 agosto si disputerà una amichevole tra O.Marsiglia e Napoli, al Velodrome, in occasione dei 120 anni dalla fondazione della squadra francese.

Marsiglia.
Non certo ricordi felici.
Coppa Campioni, 2013.
La loro polizia.
Le sassaiole.
Quello stadio pericolante.
Il dopo gara.

In campo un Napoli tutto azzurro.
Maglia, pantaloncini e calzerotti.
Due lampi: uno ispanico e uno colombiano.
Quest’ultimo a girare, sul secondo palo.
Nell’angolo vicino al settore ospiti.

Viva gli Ultras, ultimo baluardo

Ultimo Baluardo2

Gli unici sempre fedeli. Presenti ovunque, in qualsiasi categoria, sempre e solo per sostenere ciò che viene quasi quotidianamente infangato da presidenti, calciatori e allenatori: la Maglia.

Il Calcio è un business? Anche. Non solo. Non per tutti. Non per i bambini che giocano a pallone nei parchi, nelle piazze, nelle strade, nelle piccole scuole calcio di provincia.
E poi il week end si mettono nelle orecchie dei papà, per essere portati al Tempio.

Bambini che un giorno difficilmente diventeranno calciatori. Ma per tutta la vita saranno tifosi, fedeli solo a quei colori. E magari saranno lì, in curva. In casa e fuori. Dietro quegli striscioni. A perdere la voce.

Viva gli ultras, ultimo baluardo.

Mi pare si dica così…

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A qualcuno serviva l’ufficialità? Bene, è arrivata. Sarri sarà il prossimo allenatore di quelli là. A noi non serviva l’ufficialità: ci eravamo già accorti nei giorni scorsi che la trattativa sarebbe saltata solo per volontà di altri, non certo di Sarri.

Esulteranno i papponcini, che potranno buttare un altro po’ di merda su uno che è stato amato molto più del proprietario del Bari. Sono fatti così: quando l’amore dei napoletani è indirizzato a qualcuno di diverso dal Cinepresidente romano, quel qualcuno diventa un nemico. Potremmo far loro notare che se Chelsea e quelli là hanno puntato su Sarri forse il problema è di chi lo ha scaricato per manifesta invidia del pene, ma sarebbe inutile: i tifosi del Bilancio e i segaioli sui santini del proprietario del Bari hanno evidenti limiti di comprendonio.

Sarri ha deciso. Vuole riempire la bacheca, non solo il portafoglio. Quindi i cori di discriminazione razziale e geografica, gli arbitraggi scandalosi, i calendari aggiustati ad hoc, il vincere NON è l’unica cosa che conta, possono andare beatamente a fanculo. Anzi, adesso Sarri può tranquillamente cominciare a non vedere, a non sentire e a non capire. Come centinaia prima di lui.

“Sarri uno di noi”? Lo era. Lo è stato. Ha scelto di non esserlo più. Ora vuole essere uno di loro. Quello striscione aveva un senso e un valore. Oggi ha perduto il senso, non il valore: le curve partenopee non onorano facilmente una persona. Se lo fanno, vuol dire che quella persona se lo è meritato.
Il valore di quello striscione non riempie le bacheche, non genera plusvalenze, non gonfia il conto in banca.

Proprio per questo è immenso. Perché è figlio di un amore puro, privo di calcoli e convenienze.
E solo l’amore puro può essere tradito. Il resto è quello che dicono loro. “Professionismo”.

Mi pare si dica così.

P.S.
I tifosi del Napoli oggi sono tristi. Incazzati. Avvelenati.
Quelli che gioiscono sono tifosi del proprietario del Bari.

La libertà

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La libertà non è fare il cazzo che ti pare. Lo dovresti sapere, ormai. Perché a ogni tua azione corrisponde una reazione.
Non è filosofia di merda, no. È fisica. Il mondo gira così, tra un contropiede e l’altro.
E si può stare al mondo solo in due modi: in catene o liberi. No, non parlo di catene reali, di ferri più o meno arrugginiti messi da qualche divisa serva dello stato e confermati da qualche toga serva dello stato.
C’è più gente libera in galera che nelle tribune vip degli stadi di mezza Europa.
Parlo di catene mentali, di presunte certezze figlie del pregiudizio e madri di ogni giudizio. Sicurezze che danno insicurezza all’anima, portandoci a scegliere una comoda prigione dipinta di libertà da discount piuttosto che la scomoda estraneità alla massa.

Onore agli uomini realmente liberi. Agli estranei, agli eretici, agli eterodossi.

Per la Maglia, per la Città

Per la Maglia per la città

“Siamo tifosi del Napoli.
E siamo tifosi di Napoli.
Perché tra squadra e città
per noi c’è identità.
La Maglia non è moda o convenienza,
ma questione di viscerale appartenenza.”

Buona ciorta, Raul

Raul Albiol

Siamo ai saluti, Raul.
Te ne torni in Spagna.
Tante cose vorremmo dirti, rivedendo nella memoria le polaroid della tua vita in azzurro.

L’incornata al Genoa ci fece sognare. Il tuo urlo, i tuoi occhi ridotti a fessure, mentre tutto lo stadio esplodeva.

L’ultima con la Spal avrà sempre un posto speciale nel mio cuore: era l’esordio al Tempio di mio figlio. La prima volta che ha esultato al San Paolo è stato grazie a un tuo gol.

La maglia strappata col Verona. Le uscite palla al piede. Le chiusure decise e puntuali.

Tante cose vorremmo dirti, Raul.
Perché “Grazie” sarebbe troppo poco.
Noi onoriamo solo la maglia, non chi la indossa. Perché i calciatori passano, la maglia resta.
Ma quando ci troviamo di fronte ad un uomo che ha onorato la camiseta azul, non possiamo che rendergli onore.
E salutarlo.

Buona ciorta, Raul.

Ultimo baluardo

Ultimo Baluardo

I calciatori, gli allenatori, i dirigenti, i presidenti.
Tutti possono tradire, baciare maglie già abbandonate, giurare fedeltà già infedeli.

Solo loro non tradiscono mai.
Mai.

Ultimo baluardo di irriducibile fedeltà.

Away days: Roma

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Lazio vs NAPOLI.
1993/94.

Giornata turbolenta…

Colombia partenopea

Gonzalo_Martinez

Gira questa voce, da giorni.
James Rodriguez al Napoli.
E’ possibile? Pare di si.
E’ probabile? Pare di no.
Staremo a vedere.

Napoli è una città sudamericana fuori dal Sudamerica.
Questo narra la leggenda, questo dice la storia.
Città ideale soprattutto per gli argentini, ma anche per brasiliani come Antonio de Oliveira Filho, Ricardo Rogério de Brito o Luís Vinícius de Menezes – che a Napoli ci vive ancora.

E i colombiani? Si, anche loro si sono trovati bene a Napoli. Almeno stando a sentire i loro racconti di quando giocavano al San Paolo.
Il primo fu Freddy Eusebio Rincon, 27 partite e 7 gol in un solo anno, prima di andare a vincere una Coppa Campioni a Madrid, sponda merengues.
L’ultimo colombiano in maglia azzurra, escludendo il portiere David Ospina, è stato Camilo Zuniga, che oggi se la spassa sulle spiagge di mezzo mondo in compagnia di donne sempre molto procaci.
Uno da cui ci si aspettava molto era Pablo Armero, soprannominato da molti “30 sul campo”, anche se il riferimento non era agli scudetti che la Juventus festeggiava in barba alle sentenze…
Uno che aveva forse bisogno di qualche chance in più era Duvan Zapata, reduce da una grande stagione con l’Atalanta e da buone annate con Samp e Udinese.

Ma nel mio cuore c’è un altro colombiano. Visto e vissuto negli anni più belli: quelli tra l’adolescenza e l’età adulta.
Purtroppo per me, sono stati gli anni peggiori del Napoli Calcio, conclusi infatti col fallimento.
Era un laterale (perché non si è mai capito se fosse terzino, ala o guardalinee). Macinava chilometri sulla fascia, spesso dimenticando il pallone dietro di sé.
Aveva un piede morbido, morbidissimo, praticamente un mattone.
In 32 presenze in maglia azzurra non ha mai segnato un gol e forse avrà ingarrato tre cross a voler essere gentili.
I suoi strappi incendiavano il San Paolo in anni talmente bui che, quando c’era una punizione dal limite, si invocava il nome di Gianluca Luppi, non certo Cruz, Mihailovic o Pirlo.

Questo colombiano si chiamava, e si chiama tuttora, Gonzalo Martinez, ‘O Nirone. Quando penso ad un giocatore colombiano in camiseta azul, il primo pensiero va a lui.
Anche per questo, James, vedi di muoverti.
Jamme bell.

Italia – Bosnia

Lorenzo Insigne

Lorenzo ne ha messa un’altra dentro.

Un golazo, direbbe Core ‘ngrato.

A cui si aggiunge un assist. In quello stadio là.

E come sempre quando gioca la nazionale italiana, la memoria corre ad onorare la Squadra Esterna 2 di Napoli.

Esseri mitologici. Non solo per la RAI.

Away days: Belgrado

Away Days

Away days: Milano

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San Siro.
Milan vs NAPOLI.
1981/82.

Ideale Estraneo

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Saranno passati più di vent’anni da quella sera.
La sera in cui decidemmo che volevamo cambiare.
Che ci eravamo rotti i coglioni di vedere la partita al solito posto.
Volevamo andare lì, in mezzo a loro.

Li avevo visti per mesi e mesi.
Compatti come un’armata.
Senza tamburi, soltanto mani e voce.
E che voce, cazzo. Un ruggito.

Il loro simbolo mi ricordava Che Guevara.
Un capellone col basco, rigorosamente azzurro.
Una sciarpa azzurra a coprire il volto.
Un coltello stretto nel pugno sinistro.

Ma fu un’altra cosa a convincerci.
A farci alzare le chiappe da dove stavamo e ad andare lì, vicino a loro.
Fu quella sigla.
E.A.M.
Non sapevo, non sapevamo cosa significasse.
Poi ci fu spiegato.
Estranei alla Massa.

Come volevamo essere noi.
Come volevo essere io.

In curva ho imparato tutto

UMV

In curva ho imparato tutto. Tutto ciò che so su come cazzo si sta al mondo. Non me lo hanno insegnato a scuola. Non me lo hanno insegnato in chiesa. Me lo hanno insegnato in curva.

In curva ho capito che Amore fa rima con Onore. Se ami la tua squadra, devi onorarla. Se ami la tua donna, devi onorarla. Amare in maniera disonorevole non è amare. Se un amore ti porta a fare cose ingiuste o indegne, non merita di essere vissuto. Onora la tua squadra, onora la tua curva. Solo così dimostrerai amore: a lei e a tutti. E soprattutto a te stesso. Onora te stesso, fratello.

In curva ho imparato la Solidarietà. Aiutare chi non conosci. Abbracciare chi non conosci. Perché se sta lì con te, perde la voce insieme a te, si spella le mani insieme a te, macina chilometri insieme a te, subisce la repressione di stato insieme a te, significa che è come te. Significa che tu e lui siete la stessa cosa. Un pugno dato a lui è un pugno dato a te. Una manganellata sulla sua schiena è una manganellata sulla tua schiena. Quando cade per terra, aiutalo ad alzarsi. Perché quando cadrai tu, una mano si tenderà e ti aiuterà ad alzarti. Indipendentemente dal risultato. Indipendentemente dai calciatori che vestono la vostra maglia. Quella mano, per te, ci sarà sempre. Sempre.
In curva ho imparato che tutto passa, tranne l’Ideale. I calciatori possono cambiare casacca. I presidenti possono vendere la squadra. La Federazione può farla retrocederla o costringerla al fallimento. L’Ideale Ultras, invece, ci sarà sempre. In piedi sulle rovine del calcio, e del mondo, moderno. Quell’Ideale che ti fa mettere la gamba dove tutti la toglierebbero. Che ti fa credere che nella vita di tutti i giorni, anche se stai sotto 3 a zero, puoi sempre farcela. E’ già successo, e succederà ancora. E ancora. E ancora. E può succedere anche a te, se non molli di un millimetro. Se non indietreggi, nemmeno per prendere la rincorsa.

In curva ho imparato che si può essere fratelli anche se non si hanno gli stessi genitori. Che possono nascere amicizie immortali. Che il rispetto per gli altri porta al rispetto per se stessi. Che tutti abbiamo il sangue rosso, quel sangue che le forze del (dis)ordine provano a farci uscire ad ogni trasferta, persino quando non facciamo niente e stiamo buoni e composti come ci vuole il Sistema.

In curva ho imparato che il Sistema non ci vuole in una certa maniera piuttosto che in un’altra. Il Sistema non ci vuole e basta. Non vuole gente con la schiena dritta. Non vuole persone che non accettano di pagare 40 euro una curva. Non vuole persone che non vogliono tesserarsi e ridursi ad essere soci di un club. Il Sistema vuole degli utenti a cui far credere di essere suoi soci. Io non voglio essere socio di nessuno.

In curva ho imparato che la politica non deve entrare negli stadi. Perché divide. E tutto ciò che ci divide, che ci allontana, che ci ingabbia in categorie e definizioni, è nocivo. Gli ultras non si dividono, si differenziano. La differenza sta solo nei colori sociali e nelle città che difendono. La mentalità, invece, ci unisce tutti.

In curva ho imparato che chi non capisce e non rispetta queste semplicissime “regole non scritte”, non è un ultras.
Scegliete un altro nome. Chiamatelo in un’altra maniera.
Ma non vi permettete di chiamarlo Ultras.

Dietro la panchina

Dietro la panchina

Avrò avuto quattordici anni o poco più.
Stavo sugli spalti del Tempio, vicino ai Fedayn.
Incrociai un ultras che indossava una t-shirt grigia, con la scritta in rosso.
Support your local team.
Non ci avevo mai pensato, ma in effetti era una cosa sacrosanta.

Io sono di Pozzuoli, in provincia di Napoli.
A Pozzuoli esiste una squadra, la più antica della Campania.
Football Club Puteolana 1902.
La Puteolana.
Maglia granata, un diavolo come stemma.
Quando mi allacciavo gli scarpini e provavo a rubare palloni agli attaccanti avversari, per un anno ho giocato anche nelle giovanili della Puteolana.
Un anno solo, il tempo di capire che tra calcio e studi liceali, avrei fatto bene a dedicarmi solo a questi ultimi.
A vedere la Puteolana c’ero andato un sacco di volte.
Ma mai a fare il tifo.
Mai in mezzo agli ultras.

Quell’incrocio sugli spalti del Tempio mi spinse a vedere le cose da un’altra prospettiva. Decisi di andare a seguire anche la Puteolana, tutte le volte che gli orari della partita non coincidevano con quella del Napoli. Andai una prima volta, in mezzo agli ultras granata: Old Fighters e Vikings erano i due gruppi principali, quelli che avevano davvero una attitudine ultras. Conoscevo ragazzi di entrambi i gruppi, così mi sistemai con loro. Ci andai una domenica, visto che il Napoli aveva giocato il sabato.
Eravamo a pochi metri dal campo di gioco e facevamo un tifo indiavolato. Mai aggettivo fu più indicato, trattandosi della Puteolana. Il guardalinee poteva sentire le nostre bestemmie e i nostri cori. I calciatori stessi venivano coinvolti dal nostro casino sulle gradinate. Fu un’esperienza bellissima. Vincemmo, ma questo è un dettaglio poco importante. Avevamo fatto un grande tifo. Cori e treni compatti. Una splendida fumogenata. E tifo all’inglese, come piaceva a me, che lo avevo imparato nei Fedayn: senza tamburi, solo battimani e voce.

Il giovedì successivo, nel tardo pomeriggio, la Puteolana sostenne l’allenamento al Conte, lo stadio di Pozzuoli. Era uno di quei pomeriggi invernali in cui nessuno esce di casa se non ha un cazzo da fare. Io, invece, sono sempre stato un tipo a cui la casa puzzava: appena potevo, scendevo e me ne andavo per i cazzi miei. A passeggio, a scrivere, a incontrare gente.
Quel pomeriggio andai al Conte. Avevo voglia, avevo bisogno di stare lì. Chiamai qualche amico per vedere se qualcuno volesse venire con me. Un paio di loro rispose presente: ci saremmo incontrati lì.
Entrai al Conte e non c’era nessuno. Né sulle gradinate, né in campo. Il vento gelido tagliava a fette l’aria e i fili d’erba del campo. Dopo cinque minuti, mi squillò il cellulare:

  • Dove cazzo ti sei messo?
  • Sulle gradinate.
  • Lo so, ti vediamo. Che cazzo ci fai da solo là? Noi stiamo dietro la panchina. Vieni.

Alzai lo sguardo e li vidi. I miei compagni. Entrambi Old Fighters. Stavano seduti sui gradoni dietro alla panchina, dalla parte opposta del campo. Si stavano sbracciando come coglioni.
Mentre facevo il giro del campo per raggiungerli, i giocatori della Puteolana entrarono in campo. Me ne accorsi perché sentii gli applausi dei miei due amici. Guardai nella loro direzione e scorsi i calciatori abbandonare gli spogliatoi e calpestare il verde sporco del campo.
Arrivai da loro e ci salutammo. Faceva un freddo fottuto, un tempo ideale per un caffè bollente. Invece i due avevano portato qualche lattina di birra. Ne presi una in mano, era ghiacciata. Ma se hai quattordici anni e stai di giovedì pomeriggio a vedere l’allenamento di una squadra che fa l’Eccellenza o giù di lì, vuol dire che te ne sbatti il cazzo del caldo, del freddo e di quello che fanno i tuoi coetanei. Ti senti davvero come dicevano i Fedayn: Estraneo alla Massa.

Ci scolammo le prime tre birre manco fosse una calda serata agostana. Poi Procolo, uno dei miei amici, ci guardò con occhi convinti:

  • Fa nu sfaccimma ‘e fridd, ci dobbiamo riscaldare. Tifiamo.

Nessuno obiettò. Alzammo le mani e cominciammo a intonare un coro.
Poi un altro. Poi un altro ancora.
I calciatori di tanto in tanto buttavano un occhio verso di noi.
Verso tre ragazzi dietro la panchina.

Campo vuoto

Campo calcio vuoto

Quando il campo è vuoto e gli spalti silenziosi e grigi, i Pensieri corrono lungo la fascia. A volte mettono in mezzo cross invitanti, altre volte si trascinano la palla sul fondo.
Mentre gli Ideali combattono a centrocampo. Mischie furibonde, tackle durissimi, battaglie da cui si esce sempre con i lividi, anche se incredibilmente in piedi.

Le Responsabilità stanno in difesa. Perché è lì che si vincono i campionati. Lì si costruiscono vittorie e cicli. Stanno in difesa attente al contropiede, al taglio dell’attaccante dietro la linea, al rimorchio da coprire. Le Responsabilità salgono quando c’è da riconquistare palla, scappano indietro quando c’è da difendere su una palla scoperta.

Il campo vuoto a volte fa paura.
Perché puoi perdere prima ancora di scendere in campo.
Perché sa essere come la pagina bianca per uno scrittore.
Come un giorno banale di cui in futuro non si avrà più memoria.

Pioggia in faccia

Pioggia

Non leva acqua da terra da un giorno intero. Pure l’estate non ha voglia di farsi vedere. Sembra uno di quei campioni finiti in panchina, che si rifiutano di entrare quando il mister li chiama.

Intorno a me, tutto fa melina. Niente e nessuno scalfisce la monotonia di questa serata. Si vede che il risultato sta bene a tutti.
La pioggia si finge londinese, ma è una finta che riesce male. La luna è in fuorigioco dietro le nuvole e non fa niente per rimettersi in gioco. Il tempo trascorre stancamente e a nessuno interessa se ci sarà recupero.

Tranne a me, che me ne sto dritto sugli spalti della vita a prendere la pioggia in faccia.
E a sperare in una giocata che mi faccia dire “ne è valsa la pena”.

A girare, mammà

Jersey

Quando capita, succede sempre a quest’ora. Quando il sole comincia il forcing sul mare. Quando le auto cominciano ad entrare nei garage. Quando le TV si accendono sui guai del mondo narrati dai telegiornali.

Capita di sentire la voce di mia madre. Io che mi volto, e la vedo sbracciarsi dal balcone. “È tardi! Sali che è quasi pronto!”.
E io che chiedo ancora cinque minuti. Un’ultima azione. Il dribbling spiazzante, la cagliosa definitiva.

Indipendentemente dal fatto che stessi vincendo o perdendo, avevo ancora voglia di correre dietro a un supersantos. In compagnia di altri dodicenni, sudati quanto me, le ginocchia sbucciate per un fallo infame, il volto rigato dalle dita luride che hanno toccato asfalto, muri di tufo e pallone.
Dodicenni con le mamme in attesa, come la mia. Ma semplicemente prive di un balcone che si affacciava su quel rettangolo irregolare d’asfalto che era il nostro San Paolo, il nostro Bernabeu, il nostro Maracanà.

Un ultimo tiro, mamma. Prepara la doccia, mò salgo. Il tempo di metterla lì, vicino a quel palo arrugginito sopra il jersey, abbandonato dagli operai dell’ennesimo cantiere non finito.

Ora la metto a girare lì, mammà.

La panchina

Panchina

La solitudine serve. Raramente, ma serve. Perché arriva sempre il momento di spegnere il rumore e di farti due chiacchiere coi tuoi pensieri, disporli con ordine in campo e fare il punto. Arriva sempre una mattina in cui sei da solo in un parco, sigaro tra le dita e culo su una panchina claudicante, piedi incrociati e respiri profondi.
Ogni tanto gli occhi guardano oltre la linea del fuorigioco in cui tutti cadiamo, prima o poi. E anche se fingiamo di disinteressarci dell’azione, non possiamo fare a meno di pensare al gol che ci manca e al tackle che non dobbiamo fallire.
Il sole brucia sulla testa rasata, finalmente. I giorni di pioggia britannica, privi di gloria e zeppi solo di affanni, hanno un po’ rotto il cazzo.
Io me ne sto ancora un po’ qui, su questa panchina.
E pensare che la panchina l’ho sempre odiata.

Ricominciamo, va…

Ci ho pensato tanto tempo, ma poi ho deciso: ricomincio a scrivere. È un bisogno, una necessità, prima che una volontà. Perché non solo il calcio è metafora della vita, ma anche il contrario.
Ho deciso di farlo cambiando profondamente l’approccio di AVANTI A GAMBA TESA. Non più una pagina dedicata agli ultras partenopei, ma un luogo in cui si scrive di calcio e calci, di pallonate e gradinate.
Siccome non sono nessuno per professare o diffondere le posizioni dei gruppi organizzati, partenopei e non, ho deciso semplicemente di scrivere storie su ciò che ancora oggi, a quasi 40 anni, mi fa ancora ribollire il sangue. E non parlo di campionati, trofei, vittorie, faide, vendette, striscioni, comunicati.
Parlo di un pallone, un campetto, una porta, qualcuno che guarda. E che magari ancora si emoziona e alza le mani come per intonare un coro, quando vede un pallone rotolare.